L’attesa vendetta di Big Boss dopo l’attacco mortale di XOF durante Ground Zeroes arriva al suo apice in questo eccellente Metal Gear Solid V: The Phantom Pain.
Metal Gear Solid V: The Phantom Pain sarò probabilmente l’ultimo gioco della serie sviluppato da Hideo Kojima, e probabilmente per questo motivo questo gioco raggiunge un livello d’eccellenza che non si era mai visto prima. Una super produzione di oltre sei anni che passa subito a diventare uno dei capolavori del mondo dei videogiochi.
Dove gli uomini diventano demoni
Snake, Big Boss. La strada degli eroi non è mai semplice. Solitamente è pieno di sconfitte e fallimenti. Hideo Kojima in Kojima Productions come Big Boss in una Mother Base in fiamme, collassata e piena di cadaveri, ha vissuto la sua particolare Ground Zeroes con la sua imminente uscita da Konami e lo smantellamento dello studio con cui i suoi sforzi sono diventati i capolavori che oggi conosciamo. Questo triste capitolo non ha fatto altro che apportare valore nostalgico, quasi come un saluto, un addio, a un lavoro di sei anni che val bene quello di tutta una vita. Metal Gear Solid V: The Phantom Pain è il Gioco dell’Anno 2015 e irromperà sul mercato come un capolavoro, culmine di una saga, e consacrazione ripetuta dello stesso Kojima.
Il processo di recensione per Metal Gear Solid V: The Phantom Pain non è stato per niente normale. Le misure imposte da Konami hanno ristretto il numero di ore che la stampa ha potuto passare a provare il titolo a un massimo di 40. Queste misure di controllo, solite di chi teme di esporre i difetti della propria creazione per mostrarlo troppo, hanno una lettura opposta in mano a Kojima, lo stesos che ha sorpreso chiunque presentando Silent Hills con una semplice demo chiamata P.T.. Nessun giornalista ha avuto modo di completare l’inaccessibile missione 46 e gli effetti scatenati da questa missione sono sconosciuti. E questo, quando si parla del direttore giapponese, ha una spiegazione, proposito e genialità che presto scopriremo.
E così, Metal Gear Solid V: The Phantom Pain ha eliminato alcuni errori e vizi passati e non solo è il miglior Metal Gear di tutta la storia. Ma è anche il miglior videogioco di un genere, quello dell’infiltrazione, lo spionaggio, che si è molto evoluto in questo capitolo che è capace di mischiare sandbox, gestione, strategia, raccolta, sviluppo a puntate come una serie TV e le meccaniche ormai abituali della serie. Avrebbe potuto esserlo anche per quantità. A differenza dei suoi predecessori, Metal Gear Solid V: The Phantom Pain è capace di offrire facilmente 100 ore di gioco divise in missioni principali, secondarie e dirigere Diamond Dogs. E ancora di più, è il miglior Metal Gear per libertà, la capacità di affrontare le missioni in qualsiasi ordine e in ogni modo. Affrontarle in modalità stealth permetterà di trovare armi, gadget, strumenti e compagni che si adeguano perfettamente ai piani di ogni obiettivo. Lo stesso vale per quelli che sceglieranno la forza bruta o mezze misure. Tutto con capacità d’improvvisare e di adattarci a imprevisti grazie ai rifornimenti che tramite iDroid arriveranno dal cielo. Altri elementi funzionano a livello straordinario; copione, momenti drammatici ed emotivi, personaggi e boss finali torneranno per rimanere incisi a fuoco nel ricordo, scateneranno brividi e molte emozioni, ma sarebbe eccessivo dire che sbancano i preferiti dei fan fino al momento. Anche se ci si avvicinano molto.
Avrebbe potuto anche esserlo per contare coi personaggi ben armati, con abitudini umane e accecati dalle emozioni umane. Vendetta, in primo luogo e come tema portante di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain. Precisamente per questo motivo è il Metal Gear più cruento e sadico, con alcune scene francamente dure. I ritratti fati di Big Boss iniziando un viaggio verso il demonio che impersonerà in Outer Heaven, Miller finito, mutilato e risentito, il più normale, conseguente e giovane Ocelot, un instabile e debole Emmerich e una Quiet tormentata dal silenzio, diffidente e letale, riescono a trasmettere un grande livello di connessione e in certi momenti persino di empatia. E questo in gran parte è dovuto al Motion Capture integrale e specialmente al FOX Engine, che letteralmente li riempie di vita, allo stesso modo in cui lo fa con alcuni scenari aperti e schiaccianti per quanto riguarda le distanze visive, dettagli, vita animale e vegetale, cicli giorno/notte e climatologia.
E se si dovesse scegliere il miglior Metal Gear per momenti fan service, per gli innumerevoli tributi alla saga, cenni, camei, influenze, ritorni e trollate di Kojima in questo capitolo, la sua posizione resterebbe sempre la prima.
In un anno con grandi candidati al GOTY, sentenziare e dichiarare Metal Gear Solid V: The Phantom Pain come il miglior videogioco del 2015 può sembrare sicuramente precipitoso. Ma questo epico titolo, le ore di divertimento che può generare, l’emozione, ispirazione e connessione con una storia e i suoi personaggi, le possibilità che riesce a dare la sua formula reinventata, la bellezza visiva e le incantevoli melodie, fanno si che chi firma queste righe azzardi a dichiararlo tale. Metal Gear Solid V: The Phantom Pain è un videogioco creato per lasciare il segno.
La guerra ci trasforma Snake, in Bestie
Che Peace Walker sia stato un titolo che ha segnato in modo drammatico la concezione di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain acquisisce ancora più senso quando si completa realmente Metal Gear Solid V. Al di là di tutto questo è un videogioco che bisogna giocare e in cui bisogna agire come agirebbe il vero Big Boss; assumendo il ruolo di comandante dei Diamond Dogs con tutti i suoi diversi ruoli. Questo per il giocatore si traduce nel giocare con pazienza, son impegno, con affanno di completare, con perfezionismo, senza fretta e specialmente godendoselo. Cercare di finirlo nel minor tempo possibile sarà controproducente.
La Mother Base acquisisce un’importanza fondamentale come il covo dei Diamond Dogs. Ampliarla e migliorarla con diverse piattaforme, reclutare personale qualificato, assegnarlo alle unità in cui lavorano meglio, difendersi da invasioni o raccogliere risorse minerarie, combustibili e risorse biologiche è un compito di cui non si può fare a meno in Metal Gear Solid V: The Phantom Pain; giocarlo senza dedicargli cure e attenzioni è negare il concetto stesso su cui si basa MGS V. Questo aspetto strategico, di gestione e raccolta è una cosa che può scomodare i giocatori più classici di Metal Gear, ma investire ore nel farlo ci ricompenserò in modo decisivo in futuro.
La stessa cosa accade con le missioni secondarie, che sono innumerevoli. Procurano contenuti per un’abbondante quantità di ore, alcune meglio o in modo più fresco che altre, ma nuovamente sono un fattore fondamentale del gioco. Molte secondarie hanno un peso nella trama e saremo costretti ad accettarle per seguire il filo della storia. In cambio c’è una grande parte che sono orientate solamente a migliorare gli attributi della Mother Base e statistiche con il salvataggio di prigionieri, ufficiali e altro personale specialistico – Ranghi A o S – da incorporare alle nostre fila. Esistono anche alcune missioni secondarie che hanno una difficoltà, si devono giocare in modo Sopravvivenza o Estremo obbligatoriamente, e durata equivalente ad altre missioni della storia, abbastanza difficili da superare e che si sbloccano quando vengono completate le più semplici. Completarle mentre andiamo avanti nella storia, in modo parallelo o allo stesso ritmo ci aiuterà a seguire esattamente la stessa strada in cui è finito Peace Walker.
La retta finale di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain è puramente Hideo Kojima; il direttore ha riservato l’ultimo pezzo per una conversazione intima a tu per tu con il giocatore, una delizia per i veri fan di Metal Gear Solid, per quelli con un buon compromesso. Ed è proprio nel modo di consegnare il finale quando Kojima è più Kojima che mai; l’artefice di P.T. risulta unico, brillante e con una genialità e voglia di azzardare che farebbe vergognare qualsiasi altro direttore di videogiochi. Kojima firma così, e prima di abbandonare quella che è stata casa sua per quasi 30 anni, il suo Opus Magnum tri climatico. Konami ha fatto diventare Metal Gear in un’eredità, come quella dei Philosophers, ma chi si prenderà la briga di portarlo avanti avrà precisamente nell’eredità la sua più grande sfida.
Siamo un esercito senza nazione
Il titolo visivamente più impattante delle console
Il FOX Engine è senza dubbio uno dei punti chiave per capire il successo raccolto da Metal Gear Solid V: The Phantom Pain. È il motore che riesce a cambiare tutto e che permette di aprire un’infinità di possibilità che non avevamo visto finora. Kojima ha sempre voluto dare al suo franchise qualcosa che non poteva dare a causa delle limitazioni delle macchine su cui ha sviluppato gli scorsi capitoli, ed è stato con la nuova generazione e i PC attuali quando ha potuto mostrare tutto il potenziale tramite un motore pensato e disegnato specificamente per questo Metal Gear Solid, con un investimento multimilionario – abbordabile usando il Fox Engine anche sulla serie Pro Evolution Soccer -. È stato annunciato, si sono visti alcuni dettagli in Ground Zeroes ed è stato consolidato in Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, dove ottiene uno dei compartimenti grafici più solidi, d’impatto e con migliori funzionalità della presente generazione di console.
Che l’ultimo capitolo di Kojima al fronte della saga che egli stesso ha creato possa essere in formato Sandbox – diverso dal concetto open world che può vantare GTA V – è intrinsecamente legato al FOX Engine, un motore capace di muoversi nell’eccellenza in ognuna delle sue sfaccettature. Una delle grande virtù del comparto tecnico del videogioco è la capacità di muovere scenari con lunghi orizzonti con apparente facilità e scioltezza. Lasciamo indietro gli spazi più o meno chiusi e limitati per aprire il passo a un mondo che si genera e funziona a 360 gradi intorno a noi. Alcuni colleghi hanno segnalato popping nella versione che abbiamo potuto recensire, quella per PlayStation 4, ma sarà stato minimo, perché nel nostro caso non lo abbiamo notato, a 1080p e 60fps, anche se qualche piccolo scatto in un paio di momenti di stress lo abbiamo notato.
Per il resto, avanzano le parole. I modelli dei personaggi sono curati fino al fotorealismo, e le animazioni dono fluide in un modo spaventosamente naturale, sia nei nemici semplici che nei grandi boss finali. La cosa più saliente per questo aspetto sono le espressioni facciali e ciò che sono capaci di trasmettere, soprattutto nelle scene intermedie dove i modelli facciali e la sincronizzazione labiale e movimento degli occhi occupano i primi piani. La tremenda personalità dei personaggi principali fa anch’essa la sua parte – tramite il design artistico – svolgendo un ruolo vitale per ottenere le sensazioni che descriviamo.
A tutto questo si aggiunge un sistema d’illuminazione con momenti impressionanti che riesce ad adattarsi perfettamente al ciclo giorno/notte capace di trasformare in modo realistico i paesaggi in cui ci moviamo in base al momento. Grande dettaglio a livello di texture a tutti i livelli – con incidenze di pioggia, tempeste di sabbia-, riproduzione minuziosa di diversi elementi complementari come animali, vegetazione che va dal deserto afghano alla giungla congolese, e altri dettagli a livello di infrastrutture e buona gestione degli effetti speciali per quanto riguarda esplosioni e altre particelle. Tutto si incastra alla perfezione con gli impressionanti modelli citati anteriormente nella versione recensita per PlayStation 4. Inoltre, con la quasi totale assenza di tempi di caricamento – con streaming in secondo piano camuffati- che rendono ancora più meritorio il lavoro e la resa del FOX Engine.
I fratelli persi… non smetterà mai di far male
Mother Base, un po’ più di una casa
Peace Walkerg è probabilmente il capitolo meno conosciuto della saga per il fatto di essere uscito come gioco per PSP – anche se alcuni, per fortuna, lo hanno scoperto nelle raccolte in HD -. Il titolo ha un’importanza capitale nella storia di Big Boss, ma questa importanza va oltre la trama. È stato proprio lì che sono state introdotte una serie di nuove idee, aggiungendo elementi di gestione e personalizzazione che supportavano Snake come qualcosa in più di un eroe solitario. Dovrebbe essere un leader, dare forma all’ideale lasciato da Big Boss di un esercito libero senza nazione, e per farlo doveva costruire una base e reclutare un esercito mercenario che rappresenta l’ideale di lottare oltre le ideologie e le bandiere. Da lì ha preso forma una struttura di gioco e delle meccaniche innovative che sono servite come seme per ciò che viene offerto in Metal Gear Solid V: The Phantom Pain.
Si possono riconoscere le origini, ma qui l’ambizione e l’esecuzione sono semplicemente su un altro livello, probabilmente per aver completato tutti gli obiettivi intorno a questa visione. La quantità di pezzi che si sono creati intorno a questo e il modo in cui si relaziona con altri aspetti del gioco parlano di un lavoro titanico destinato a essere qualcosa in più di un semplice intrattenimento oltre le missioni. Mentre altri titoli riescono a fare in modo che la costruzione della base sia solamente un elemento più o meno interessante, qui ci accorgiamo che è una delle parti centrali del gioco, dotata di numerose possibilità che ci permetteranno di definire persino il nostro stile e le possibilità sul campi di battaglia.
Tutto comincia con una semplice installazione petrolifera, una piattaforma marittima che viene scelta come luogo ideale per creare la nuova Mother Base: difficile da localizzare e più facile da difendere rispetto a un avamposto sulla terraferma. Questa sarà casa nostra, 100% esplorabile a piedi – è raccomandato farlo per trovare piccole sorprese – e la colonna vertebrale su cui costruiremo con le nostre stesse mani il futuro di Diamond Dogs. Col passare del tempo passeremo da una semplice piattaforma a una complessa struttura di vari edifici sul mare, vicino alle Seychelles, con diverse sezioni, che serviranno per esempio ad allenare le nostre reclute o a sviluppare tecnologie di combattimento e infiltrazione. Ma tutto questo non sarà gratis: dovremmo dedicare del tempo alle missioni per localizzare risorse, armi e persino uomini con cui poter sviluppare la base. E una volta che ci saremo riusciti saremo costretti a dedicargli cure, passare del tempo nella base, coordinare le missioni e persino realizzare cose semplici come farci la doccia per evitare che i nostri uomini perdano la compostezza. Dettagli come passare del tempo con le nostre reclute, salutarli, allenarli o fare pratiche di tiro a segno avranno una ripercussione sulla morale e la disciplina, il che avrà benefici a lungo termine ed eviterà circostanze come risse tra soldati, oltre ad altri vantaggi.
C’è un elemento realmente rilevante della gestione. Nelle missioni per esempio, ogni pezzo o individuo che ruberemo – con la ormai celebre tecnica di recupero coi palloni Fulton- , entrerà a far parte della nostra squadra. Man mano che accumuliamo uomini e risorse potremo espandere la base in diverse direzioni, con nuove sezioni e moduli specializzati. Per esempio potremo creare una piattaforma I+D che sarà dedicata a studiare nuove armi e strumenti da usare in battaglia. Un’altra piattaforma ci permetterà di creare un gruppo d’assalto indipendente in grado di affrontare missioni in modo indipendente e che può portare diversi benefici economici se viene utilizzata bene – e il denaro è un bene importantissimo in guerra, soprattutto quando ci sono tante bocche da sfamare-. È possibile persino lasciare Big Boss a casa e usare uno di questi soldati al posto suo, il che può essere interessante se sono in possesso di abilità specifiche di cui possiamo fare buon uso. Inoltre sarà possibile stabilire anche un team di supporto, a cui ci si può rivolgere, per esempio, per ottenere armi, traduzione, cambiare compagni o squadra, munizioni extra e persino veicoli nel bel mezzo di una missione tramite paracadute, oltre ad altri vantaggi.
Ogni nuovo soldato si integra nel ramo più indicato in base alle sue statistiche, anche se possiamo assegnarli a piacere. E questo determinerà il livello che raggiunge ogni modulo. Possiamo delegare la sua gestione automaticamente – premendo un singolo tasto la CPU li ordina in base alle cifre- ma il segno distintivo di un buon comandante è dirigere le proprie truppe, e certamente saremo ricompensati per il tempo dedicato a questi compiti. Da una parte c’è la soddisfazione nel vedere come progredisce la base e come costruiamo una fortezza per i nostri uomini. Un motivo di questa soddisfazione lo offre il fatto di avere un grande controllo sulla stessa, e non solo avanzerà nella direzione in cui vorremo, ma potremo anche personalizzarla nel dettaglio per sentirlo come qualcosa di nostro e non un elemento predefinito che si evolve al margine rispetto a noi. D’altra parte, gli innumerevoli vantaggi, soldati, abilità, armi e modifiche o migliorie nell’equipaggiamento che otterremo nella nostra gestione rappresentano senz’altro una ricompensa – alcune di loro sono necessarie per compiere le missione o per sconfiggere alcuni nemici- che faranno in modo di farci avere sempre un nuovo giocattolo con cui espandere le nostre già abbondanti possibilità dentro a un’operazione. Senza dubbio, la Mother Base passerà alla storia come una delle basi più curate e miglior realizzate dei videogiochi.
Non possiamo dimenticare un altro elemento importante delle basi, anche se questo completamente opzionale e innecessario se non lo si vuole affrontare. Esiste la possibilità di creare basi avanzate (o FOBs) che sono basi che occupano uno spazio online, assieme ad altri giocatori. Questo significa che un giocatore potrà prendere d’assalto la base di un altro per rubare uomini e risorse – specialmente se riesce ad arrivare al nucleo-. Per evitarlo dobbiamo stabilire difese e scommettere soldati, ma questo ha un costo e in ogni caso non è efficace come mandare uno dei nostri soldati a partecipare direttamente nella difesa, diventando così un PVP impari in cui l’attaccante ha uno svantaggio ma può guadagnare molto. Questa modalità, insistiamo, è completamente opzionale e può essere ignorata se non desideriamo un elemento online nella nostra partita. Inoltre contiene un sistema di micro transazioni, che Konami continua a insistere servano solo ad accelerare se lo vogliamo, ma non è necessario se vogliamo usare questa modalità. Purtroppo i FOBs non erano disponibili durante la nostra partita – i server saranno attivati il giorno del lancio-, quindi non possiamo valutare questa modalità in questo momento.
Kaz… Sono già un demone
Supporto sul campo
Un’altra delle novità di spessore in Metal Gear Solid V: The Phantom Pain è il sistema di compagni che ci permette di scegliere nella schermata di selezione armamento – dove configuriamo gli abiti di Big Boss, arma principale, secondaria, gadget e altri strumenti- prima della partenza, uno dei quattro accompagnanti del protagonista sul campo di battaglia. Ogni compagni avrà caratteristiche proprie, vantaggi e svantaggi. Il cavallo D-Horse è utile per spostarci o fuggire a grande velocità, può farci da scudo quando attraversiamo zone nemiche e accorre veloce quando la chiamiamo, inoltre, può essere equipaggiata con tenuta da combattimento, ma la sua presenza offensiva è nulla. D-Dog è la mascotte ideale per Big Boss. Se in un momento preciso della trama decidiamo di salvare quello che è un cucciolo indifeso e lo portiamo sulla Mother Base, Ocelot se ne prenderà cura e lo addestrerà fino a convertirlo in un compagno fedele e molto utile in combattimento: localizzazione di nemici e prigionieri, fiuto di tracce, raccolta di risorse, abbai davanti al pericolo e persino attacchi mortali- capriola e pugnalata inclusi., ancora di più quando ha addosso la propria tenuta da combattimento con benda e machete – in un omaggio al logo FOXHOUND-. Il basico Mech bipede Walker Gear da luogo al D-Walker, che è un po’ speciale: capace di entrare in modalità stealth piegando le estremità, può sparare dardi tranquillizzanti, proteggere Big Boss con la sua armatura o trasportare alla massima velocità prigionieri per allontanarli da zone di conflitto e permettere un’estrazione Fulton successivamente. Ci è sembrato il meno impressionante tra i quattro, non troppo ben strutturato, senza chiari vantaggi.
Ma il compagni top tier è senz’altro Quiet. Il cecchino muto basato su Stephanie Joosten che ha decimato l’esercito sovietico per settimane ci offre momenti brillanti nella trama- sotto forma di omaggi a duelli passati- e le sue abilità sovraumane – attivate quando il suo volto scurisce- di dematerializzazione e capacità di teletrasporto sono certamente mortali. In combattimento possiamo indicarle a quale ruolo adempiere – attacco, difesa e supporto- dopo di che, controllata in ogni momento dalla propria IA, si dedicherà a eseguire gli ordini con un’efficienza schiacciante. Quiet realmente semplifica le cose: ci coprirà mentre ci infiltriamo e persino in combattimenti all’aperto cercherà sempre la posizione più elevata –sfruttando il teletrasporto- per godere degli spari migliori. Ci salverà in più di una missione quando ormai avremo perso le speranze di farcela. Nella modalità attacco è frequente vedere il suo mirino laser color verde che si sposta da un punto all’altro ed eliminando i soldati nemici mentre passiamo, senza che sia necessario il nostro intervento. L’uniforme che porta e che ha sollevato tante polemiche non può essere cambiato, infatti Ocelot spiega a Big Boss perché Quiet è costretta a portare quei vestiti, ma nella Mother Base potremo creare per lei Bikini, vestiti argentati, dorati o completamente coperta dal sangue (come nel poster promozionale) che infonde il terrore tra i suoi nemici.
Voci, dal 1984
Nel comparto sonoro troviamo un ampliamento di quanto ascoltato in Ground Zeroes, aperitivo di questo Metal Gear Solid V: The Phantom Pain. Harry Gregson Williams si circonda dei suoi collaboratori e mischia nuovamente un pezzo bipolare, con la metà dominata da campionamenti digitali aggressivi e l’altra metà malinconica e serena. L’uso del Here’s to You, la canzone che suonava in Ground Zeroes durante la scena con le Jeep, è un altro esempio che MGS V si amplia con canzoni incentrate sull’anno in cui si suppone abbia luogo: 1984. Non diremo nessun titolo in particolare, ma alcuni sicuramente li riconoscerete all’istante. La musica, perfetta un ogni scena, ha in MGS V uno di quei usi degni di essere studiati, dato che entra esattamente quando deve entrare, con il tempo preciso in ogni momento, sia intenso, drammatico, violento, stupefacente, malinconico o per rimarcare un piccolo istante d’umorismo. La sua brutale implementazione dinamica, con un rilascio in stile film di Tarantino, trasforma questo insieme in un Frankenstein sonoro per quanto riguarda il mischiare stili, che Kojima e il suo team perfezionano e montano in modo quasi malato fino a ottenere una coesione gigantesca. Per il ricordo il Quiet’s Theme, da adesso uno dei migliori e più belli di tutta la serie e cantato dalla stessa attrice del personaggio.
Ma passiamo al comparto che maggiormente ha diviso i fan, e con più detrattori che difensori: Il dopiaggio. Per la prima volta dal 1998, e proprio alla fine del trascorso del creatore, il protagonista perde la voce di David Hayter per trovarne una nuova nell’attore Kiefer Sutherland. Ovviamente i fan più sensibili al caratteristico timbro di Hayter noteranno una certa dissociazione nel ascoltarlo. Ma questo Boss, Questo Snake, è diverso. La sua storia è un’altra, i suoi gesti non sono gli stessi, la sua conversazione si è ridotta a gesti e frasi rotte. Anche se non ha il suo tono, il suo timbro, e le sue linee di dialogo sono state drasticamente ridotte se paragonate a quelle di altri Snake, il lavoro di Kiefer è francamente buono. Il resto delle voci suonano allo stesso livello qualitativo, spicca il lavoro fi Troy Baker come Ocelot, facilmente il migliore del gioco, e il cenno definitivo dell’accento inglese di Eli – nemmeno una è fuori luogo, anche se l’esposizione narrativa è scarsa, e le lunghe conversazioni via Codec – in sequenze cinematiche- diventano roba del passato.
Conclusione
Metal Gear Solid V: The Phantom Pain è uno di quei videogiochi trascendentali: una produzione esemplare a tutti i livelli e un’opera che dà nuovamente un valore al videogioco come mezzo. Riuscire a spiccare in un franchise pieno d’eccellenze come questo è molto complicato, e persino con questa premessa The Phantom Pain riesce a piazzarsi come il tributo definitivo di Hideo Kojima a quella che è stata la sua saga. Il gioco ha saputo adattarsi ai tempi moderni e ricostruirsi come un Sandbox senza perdere nessuno dei suoi segni identificativi, mantenendo le proprie virtù, ripulendo difetti, incorporando tematiche viste in altri titoli. Il carisma dei personaggi è sempre lì, con la storia della caduta di un eroe diventato un criminale con cui si riesce a empatizzare. I momenti epici, i boss finali memorabili nati dai disegni meccanici di Yoji Shinkawa e un copione con molte sfumature che è il più complicato e sorprendente dei 30 anni di Metal Gear. Pieno di sorprese che ancora nessuno conosce e che conosceremo quando lo vorrà Hideo Kojima.
Metal Gear Solid V: The Phantom Pain è l’esponente massimo di ciò che “A Hideo kojima Game” stampato su una scatola ha trasmesso per varie generazioni.